Svegliati, Artista!
La sveglia suonava da alcuni minuti, ma era troppo lontana da me l’intenzione di alzarmi. Ero stanca come ogni venerdì, quando quell’odiato trillo troncava i miei sogni alle 4,30 del mattino per il terzo giorno consecutivo.
- “Svegliati, artista! Vado a preparare il caffè”.
Mi chiedevo come potesse sorridere a quell’ora, mentre la notte soffiava alla finestra un vento gelido.
- “Oggi ti accompagno io!” – sentenziò appena giunsi in cucina, ancora semi addormentata. – “Cosa?! Ho 21 anni e frequento l’università, non posso farmi accompagnare dal babbo come se fossi al liceo!” – risposi risentita.
- “Potrebbe essere l’ultima volta che ti accompagno a Firenze” – replicò mio padre con voce ferma. Un brivido mi percorse la schiena, il silenzio si impadronì del mio animo e non fui capace di rispondere se non con un gesto del capo, come per dire «va bene».
Era una condanna mai espressa, che il suo cuore però percepiva nelle azioni che gli sfuggivano giorno per giorno, nella stanchezza che non riusciva a vincere nemmeno con tutta la sua volontà.
- “Devi darmi un consiglio… aiutarmi a scegliere una cosa” – sorrise misterioso indossando il giaccone. Era una delle più fredde mattine di fine gennaio, partimmo alla volta di Firenze alle cinque; l’orario della facoltà prevedeva solamente due ore di lezione, così rimanemmo d’accordo che ci saremmo incontrati davanti al portone dopo le dieci. Da lì saremmo andati nel centro con l’autobus.
Avevo imparato a conoscere da poco mio padre, fino a non molti anni prima era per me una figura non facilmente comprensibile: sempre nervoso, silenzioso, raramente aveva mostrato approvazione per il mio operato, a suo parere avrei potuto e dovuto fare sempre meglio.
Il nostro rapporto era cambiato con il mio arrivo all’università; ero entusiasta del nuovo ambiente e appassionata dei nuovi studi, tanto da tornare a casa e mettermi a studiare dopo aver trascorso tutta la mattina e anche parte del pomeriggio lontana da casa.
Ai primi esami sostenuti avevo ottenuto buoni voti e questo lo aveva riempito d’orgoglio al punto da seguirmi in modo assiduo: ogni volta mi risentiva le materie d’esame per darmi sicurezza, anche senza comprenderle a fondo e ogni volta, al termine di ogni esame, gli telefonavo immediatamente.
- “Allora, come è andata?” – era sempre la sua prima domanda
- “Insomma…” – rispondevo titubante
- “L’hai passato?” – chiedeva nascondendo un sorriso
- “…si…”
- “E quanto hai preso?”
- “Indovina!”
Questo era il nostro gioco, che terminava con la risposta esatta di mio padre dopo una serie di tentativi che spaziavano su tutta la gamma delle votazioni possibili. – “Brava! Complimenti! Ora lo dico io alla mamma, cosa ti preparo per quando torni?”. Era come un rito, si ripeteva ogni volta allo stesso modo; si era instaurata tra noi confidenza ed una particolare complicità.
- “Voglio comprare un regalo di compleanno per la mamma” – disse quella mattina appena lo raggiunsi – “Ma se il suo compleanno è tra due mesi?” – risposi meravigliata – “Voglio essere sicuro di farle un regalo che le piaccia e che le ricordi di me anche quando non ci sarò più”- .
Soffocai nuovamente le lacrime, non sopportavo quei discorsi, non accettavo quella realtà, se pur troppo vicina. Non credevo fosse possibile continuare a vivere senza un genitore, non poteva capitare a me… non era il momento…
Scendemmo dall’autobus nei pressi di Piazza Duomo e ci incamminammo per Via dé Calzaiuoli raggiungendo, quindi, Piazza della Signoria, dove ci fermammo a prendere una cioccolata.
Seduti al tavolino del caffè il babbo mi spiegò che era giunto sino a Firenze per comprare un anello da regalare alla mamma e desiderava il mio aiuto affinché scegliessi quello che, a gusto di lei, sarebbe stato il più bello. Non aveva importanza quale fosse il suo prezzo, voleva lasciarle un ricordo: il simbolo di ciò che l’incomprensione e la quotidianità gli avevano impedito di esprimerle.
Riprendemmo il nostro cammino, attraversando alcuni vicoli che ci portarono fino a via Porta S. Maria, quindi a Ponte Vecchio. Durante il tragitto, più volte osservai silenziosamente mio padre e, in alcuni momenti, a stento riuscii a riconoscere nella sua figura quel gigante alto e pieno di forze che avevo sempre conosciuto. Dai suoi occhi traspariva un uomo fragile, nascosto dietro maschere di vetro; il suo passo si era fatto incerto, stanco, ma il suo cuore bruciava di voglia di vivere.
Quando ero più piccola mi aveva narrato molte volte degli anni che aveva trascorso in collegio proprio a Firenze, ma quella mattina mi permise di vivere il suo passato: le sue vie, i suoi rifugi, le strade che più amava percorrere, i luoghi ove soleva soffermarsi a pensare, i “canti” nascosti ai turisti e le piazze ove il mondo passa, scatta una foto e se ne va via…indifferente.
Nella vetrina della terza bottega trovammo ciò che stavamo cercando; il mio aiuto non fu poi così importante dato che, improvvisamente, – “QUELLO!” – esclamò – “Quello! Non è vero? È perfetto!”.
Entrammo nel negozio ed in pochi minuti il pacchetto era pronto, avvolto in un’elegante carta blu notte e chiuso con un delicato nastro dorato. – “Le piacerà, lo so” – disse sorridendo – “Già la immagino mentre lo scarta: alla vista della sola etichetta le verranno i lucciconi agli occhi poi, piagnucolando, dirà «Babbo… perché hai fatto questa pazzia?».
Così fantasticando riprendemmo l’autobus e, per tutta la durata del viaggio di ritorno, il babbo continuò ad immaginare le reazioni della mamma il giorno che avrebbe ricevuto il suo regalo. Elencò tutte le sue espressioni, come se l’avesse ammirata per tutta la vita; sapeva descrivere ogni minimo movimento del volto: “piegherà un po’ la bocca…”, “sbatterà più volte le ciglia…”. Sorrideva compiaciuto, non riuscendo a trattenere il desiderio di portarle immediatamente quel piccolo pacchetto… il suo ultimo regalo.
- “Adesso manca soltanto un bel biglietto” – disse voltandosi – “ma quello me lo cerco da solo!” – aggiunse.
Era molto stanco, la sua voce si era abbassata ed il suo volto pareva segnato dalla fatica di quel breve viaggio, ma era felice e la sua gioia illuminava di vita i suoi occhi.
Fu il nostro ultimo viaggio a Firenze; forse a causa di quella fatica o forse perché il destino così aveva deciso, ma le sue condizioni peggiorarono. Il mio gigante si fece sempre meno forte. Non mi svegliava più al mattino con la solita frase: “Svegliati, artista!”
Ogni giorno l’odiato trillo delle 4,30 troncava i miei sogni, io mi alzavo dal letto nel silenzio dell’inverno, mentre la notte gelida sussurrava alle finestre che non sarebbe tornata la primavera. Scendevo in cucina e mi preparavo il caffè poi, prima di partire per la stazione, andavo in camera dei miei genitori per salutare il babbo.
Giunse febbraio e mio padre lo accols
e sonnecchiante sulla poltrona ove, stremato dai farmaci, trascorreva le sue giornate. Non volevo perdere più alcuno degli attimi che la vita ci concedeva, così sospesi le mie frequenze in facoltà; ogni mattina, presi i libri, andavo a studiare sul tavolo a fianco del babbo, che di tanto in tanto si svegliava e fingeva di seguire il mio operato.
Talvolta mi soffermavo qualche istante e, silenziosamente, cercavo tra i lineamenti di quell’uomo sfigurato dalla debolezza, le sembianze di colui che avevo sempre conosciuto; poi, prima che anche una sola lacrima potesse svelare i miei pensieri, tornavo a fingere un’attenta lettura.
A fine mese sostenni un nuovo esame e, come al solito, appena uscita dalla stanza telefonai a mio padre:
- “Come.. è andata?..” – chiese con un filo di voce
- “Bene” – risposi
- “…Quanto hai preso..?..” – sussurrò faticosamente
- “27” – dissi, interrompendo il nostro gioco.
- “Brava… sono contento… ma chiama anche la mamma… così le dici cosa preparare per quando torni…”
- “Non ti preoccupare, babbo, torno tardi…” – ci salutammo. Appena riattaccai il telefono un nodo mi strinse la gola e piansi. Sentivo nel cuore che era la nostra ultima telefonata…e avevo paura.
Se ne andò pochi giorni dopo, in una notte d’inizio primavera. Una primavera cui non sarebbe più seguita l’estate. Rimanemmo io e mia madre da sole, ognuna chiusa nel proprio dolore, taciuto nel rispetto dell’altra; ognuna saldamente legata ai proprio ricordi.
Pochi mesi dopo la mano di mia madre, guidata dal caso, si soffermò sul giaccone che il babbo indossava quella mattina di fine gennaio: nella tasca c’era un piccolo pacchetto, avvolto in un’elegante carta blu notte e chiuso con un delicato nastro dorato che legava anche un foglio di carta da lettera ove, con mano un po’ incerta, mio padre aveva trascritto una breve poesia:
“Se muoio sopravvivimi con tanta forza pura
che tu risvegli la furia del pallido e del freddo,
da sud a sud alza i tuoi occhi indelebili,
da sole a sole suoni la tua bocca di chitarra.
Non voglio che vacillino il tuo riso né i tuoi passi,
non voglio che muoia la mia eredità di gioia,
non bussare al mio petto, sono assente.
Vivi nella mia assenza come in una casa.
È una casa sì grande l’assenza
Che entrerai in essa attraverso i muri
E appenderai i quadri nell’aria.
È una casa sì trasparente l’assenza
Che senza vita io ti vedrò vivere
E se soffri, amor mio, morirò nuovamente.
P. Neruda”
Hai fatto venire i lucciconi pure a me.
Un abbraccio
Ciao Lavinia, noi non ci conosciamo: sono la ragazza di Giulio Casciani… Oggi mi ha inviato il link di questa pagina del tuo blog per farmelo leggere… Che dire: mi hai fatto piangere di commozione…